Le sue origini risalgono alla notte dei tempi e pare che già i Babilonesi e i Persiani lo utilizzassero per la conservazione dei cibi, oltre che per la cura di ferite croniche, quali ulcere e piaghe da decubito.
Stiamo parlando dell’aceto di vino, da sempre presente sulle nostre tavole, a fianco all’olio extra-vergine d’oliva.
E l’Italia vanta una lunga tradizione nella sua produzione – anche grazie alla presenza di una filiera vitivinicola ben sviluppata.
L’aceto, infatti, deriva dalla fermentazione acetica del vino, bianco o rosso che sia. A voler essere precisi però, non si tratta di una vera e propria fermentazione, bensì di un’ossidazione, operata da batteri gram-negativi appartenenti al genere Acetobacter, che trasformano l’etanolo in acido acetico.
Un processo chimico che, per quanto semplice, richiede molto tempo per concludersi.
Tuttavia, negli anni, l’aumento della domanda ha portato allo svilupparsi di nuove e più veloci tecniche produttive, non senza qualche problema sulla qualità.
Aceto di vino, 3 modi per produrlo
Ad oggi, l’aceto di vino può essere ottenuto essenzialmente in tre modi, mediante:
Fermentazione statica superficiale
E’ nota anche col nome di “metodo primitivo” e prevede che il vino venga versato all’interno di piccole botti di legno, lasciate appositamente scolme, per favorire il processo ossidativo e quindi l’azione dei batteri acetici.
Qui, il vino riposa per alcuni mesi o addirittura anni, senza l’intervento dell’uomo. Un processo del tutto naturale, al termine del quale, l’aceto – ormai definito nel profumo e nel gusto – viene spillato ed imbottigliato.
La tradizione vuole che nelle botti venga lasciato sempre un po’ di aceto, pari a circa il 15% del volume iniziale, da utilizzare come innesto per le produzioni successive.
Tra tutti, è il metodo che preferiamo, in quanto permette di rispettare a fondo la materia prima di partenza, che si presuppone essere un buon vino.
Fermentazione lenta a truciolo
Si tratta di una tecnica non molto diffusa, che prevede l’utilizzo di un grande tino in legno, al cui interno si trovano dei ripiani “a griglia”, su cui vengono adagiati dei trucioli di legno – o fascette.
Questo materiale poroso funziona da polmone di supporto per i batteri acetici che, mediante degli appositi fori, attirano a sé l’ossigeno necessario.
Il vino viene quindi prelevato dal basso, mediante una pompa, e fatto cadere “a pioggia” dall’alto. In questo modo, aumenta la superficie di contatto fra liquido e batteri acetici, e diminuiscono i tempi di trasformazione.
Fermentazione rapida o sommersa
In questo caso lo strumento utilizzato è un contenitore in acciaio inox 316, che alla base presenta una turbina per l’immissione forzata dell’aria.
Questo fa sì che l’aria si mescoli rapidamente con il vino e, quindi, con i batteri, che lavorano molto più velocemente, data la grande quantità di ossigeno presente.
Al termine della trasformazione, si spilla il prodotto lasciandone sempre una piccola parte all’interno.
L’aceto così ottenuto è apprezzato soprattutto dalle industrie conserviere e dai produttori di salse.
Fonte: sito web pahontuvinegar.com
Come l’Acetaia Pahontu ha valorizzato l’aceto di vino
Altra storia, invece, è la produzione dell’Aceto Balsamico, di cui parleremo diffusamente in un prossimo articolo, citando anche alcune virtuose realtà locali.
Per ora, continuiamo a concentrarci sull’aceto di vino, che per anni è stato – ingiustamente – bistrattato e relegato al ruolo di condimento.
Ma c’è chi ha deciso di nobilitarlo, fino a renderlo un ingrediente prezioso in cucina.
Si tratta dell’Acetaia Pahontu, l’unica dei Colli Euganei che, dall’acetificazione statica superficiale di vino Moscato di qualità – biologico e biodinamico – ottiene un aceto a dir poco straordinario, dai toni ambrati e dal bouquet ricco, di fiori di sambuco, miele d’acacia e agrumi.
Profumi che sono accompagnati da un’encomiabile sapidità – coerente con l’origine vulcanica di queste terre – che supporta una piacevole freschezza, piacevole nonostante l’etichetta dichiari il 10% di acidità; una sensazione di pulizia che interessa tutto il cavo orale, senza note amare di sottofondo – come, invece, spesso capita.
Mauro Meneghetti e Simona Pahontu – i proprietari dell’Acetaia – devono attendere quasi un anno prima di poter spillare il loro aceto, che successivamente provvedono a versare in eleganti boccette in vetro.
Il tempo è tanto per un aceto di vino, certo. Ma i migliori risultati si ottengono lentamente.
Come per i più grandi aceti (sempre più rari) bastano poche gocce per animare un piatto: sulla crema pasticcera, sul risotto mantecato a fine cottura oppure sui fichi caramellati è sempre sorprendente.
E anche negli abbinamenti più classici, più tradizionali, si comporta da regista, coordinando un cast d’eccezione, di profumi e sapori, i più disparati.
Insomma, un ingrediente che, anche in Alta Cucina non può mancare.
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